Il 29 novembre 1902 nasceva a Torino lo scrittore e pittore Carlo Levi

Tutti conoscono Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato nel 1945 da Carlo Levi. Molti ignorano, invece, L’orologio, libro che apparve cinque anni dopo e che intreccia, come il primo, saggistica e narrazione.
Qui la scena si sposta da uno sperduto villaggio lucano nella capitale. Prima di trasferirsi a Napoli con un viaggio assai avventuroso, il protagonista-narratore (trasparente alter ego dell’autore) si aggira per tre giorni nelle strade di Roma, tra squallidi alberghi, osterie popolari e Palazzi della politica: sono le giornate del dicembre 1945 in cui cade il governo di Ferruccio Parri e a molti pare definitivamente perduta l’atmosfera vivificante della Resistenza in cui non si pensava esistesse differenza fra i politici e la gente comune. E’ la fine di una grande illusione.
Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al Governo, e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto.
Al termine della propria breve odissea – tra una folla di mendicanti prostitute commercianti ambulanti reduci partigiani e giovani intellettuali, che spesso ne vivacizzano il racconto con le loro svariate testimonianze – l’atto d’accusa di Levi si rivolge contro la burocrazia parassitaria del sottogoverno (contro il suo linguaggio sacro e convenzionale e i suoi rituali incomprensibili, uno stagno di interessi e di intrighi gestito tra astuzie, maneggi e astratte contese) che anche dopo il fascismo trova in Roma una perpetua continuità, riciclandosi con il consueto, gattopardesco trasformismo. Sono i cosiddetti “Luigini“, che si contrappongono ai “Contadini” (ovvero ai ceti produttivi) e si concentrano innanzitutto nei ministeri.
Un Ministero. voi non sapete che cos’è un Ministero. Nessuno lo sa, se non ci sta dentro. Non è neanche immaginabile. E’ un mondo sconosciuto, sotterraneo e infernale. E’ la raccolta miracolosa di tutte le miserie […] Quei muri isolano dal mondo di fuori una casta chiusa di piccoli borghesi degenerati e miserabili, sordi e ciechi e insensibili a tutto se non ai loro piccoli bisogni, alla loro omertà, ai loro intrighi talmente meschini e microscopici da riuscire incomprensibili. Il Ministero è una specie di tempio, dove si adorano e perfezionano i vizi più abbietti, i tre più desolati peccati mortali: la pigrizia, l’avarizia e l’invidia.
Nel romanzo autobiografico di Levi non manca una cruda descrizione della miseria delle plebi, che culmina nella visita alle borgate e specialmente al Lotto 42 della Garbatella, tra bambini cenciosi e grappoli di topi. Tuttavia si è fuori dai canoni del neorealismo: su tutto dominano la soggettività del protagonista e il suo monologo interiore, che del mondo circostante percepisce la dimensione mitica e onirica. Come nella perdita dell’orologio (smarrito in sogno e poi rotto all’inizio del romanzo) che pare simboleggiare una frattura nel tempo storico – e una crisi della fiducia nel progresso – e che dà il titolo al romanzo.