Il 19 dicembre del 1883 nasceva, a Torino, Guido Gozzano
E se fosse vero? Se veramente noi non fossimo il Re dell’Universo come la nostra religione ci promette? Se veramente il verme, il cane, l’uomo, non fossero che graduazioni varie dello spirito, della stessa forza immanente che palpita ovunque, esitando incerta verso una mèta che ignoriamo e che non è forse se non la pace dell’Increato?

Con queste domande Guido Gozzano chiudeva l’ultima delle sue Lettere dall’India, sottotitolo del volume Verso la cuna del mondo che sarebbe apparso postumo nel 1917 a pochi mesi dalla sua morte, riunendo quindici articoli pubblicati tra il ’14 e il ’16 dal quotidiano “La Stampa” e da vari periodici.
Va detto che l’India del poeta piemontese è innanzitutto un mondo di carta, ispirato dall’attenta lettura di viaggiatori e orientalisti (da Pierre Loti a Mantegazza), per non dire di Salgari: pare d’altronde che egli abbia soggiornato soltanto a Ceylon e a Bombay e non abbia mai raggiunto Benares, la favolosa “culla del mondo”. Nelle sue pagine non mancano le tipiche ‘cartoline’ dell’esotismo orientaleggiante: dai templi di Ganesa, dei lingam fallici e della Trimurti, alla mole colossale delle gopuram, dai giganteschi baniam alla flora demente dei Tropici, dalla cittĂ morta della vecchia Goa portoghese alla composita fauna di mucche sacre, bufali, scimmie, elefanti, corvi, avvoltoi pappagalli, e alla turba di asceti bramini e buddisti, yogi e fakiri (ma non solo) che affolla le rive del Gange.
E tutti pregano e meditano. Meditano su che? La mia barca passa loro innanzi, deve deviare per non urtarli, ma quelli mi fissano e non mi vedono. Il loro sguardo è al di lĂ […] Molti di costoro non sono fachiri, nĂ© santi, nĂ© pellegrini. Sono uomini di venti, di trent’anni, vigorosi e sani: artigiani, mercanti, soldati, operai che risaliranno le scalee per riprendere la lotta consueta, ma che ogni giorno, due volte al giorno, scendono nella morte, s’immergono nel fiume a colloquio con la propria anima, per prepararsi quotidianamente al trapasso inevitabile. Odioso confronto con i nostri uomini, con i nostri borghesi occidentali che ignorano ogni cosa dell’anima!
Gozzano definisce il subcontinente indiano una Terra dell’Indulgenza, che tutto accoglie nel proprio pantheon multiforme come un convegno del mondo: luogo misto, illogico come un quadro futurista. Nel contempo, esprime apprezzamento per il colonialismo inglese; e non cessa di ribadire lo sdegno di fronte al fanatismo, all’idolatria e soprattutto alla barbarie insensata delle caste. Ma registra anche la fatale (e meritata) delusione per chi viene in India mendicando un po’ di inverosimile, di soprannaturale. E tenta di abbandonare l’abito del turista, sottraendosi – per quanto possibile – al dovere dello shopping e alla raccolta dei souvenir:
Un budda, una trimurti in avorio, un elefante in ebano, […] amuleti, monili gemmati, ori massicci di bajadere. Cose che tentano, ma che compero senza fede, per qualche amico in Italia. Non le amo nella mia casa. So quale malinconia d’esilio, quale stridore borghese acquistano sotto il nostro cielo.
Cose, per l’appunto: come quelle di pessimo gusto dell’indimenticato salotto di Nonna Speranza.