Quarant’anni fa, il 10 gennaio 1971, Goffredo Parise pubblicava sul “Corriere della Sera” la prima voce del suo Sillabario (Amore)
Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore.
Con questa avvertenza si apriva il volume dei Sillabari, che riuniva nel 1982 il Sillabario n. 1 e il Sillabario n. 2 pubblicati negli anni precedenti da Goffredo Parise: in tutto cinquantaquattro brevi racconti – disposti in ordine alfabetico dalla A di Amore Affetto Amicizia Anima Allegria alla S di Sesso Simpatia Sogno Solitudine – in cui lo scrittore vicentino offre un raffinato esercizio di stile, o addirittura (come osservò Cesare Garboli) “distilla la pietra filosofale del raccontare”.
E’ un susseguirsi di fotogrammi istantanei, che talora recuperano i piccoli episodi – apparentemente insignificanti – della vita quotidiana, altre volte scandiscono relazioni e vicende che attraversano gli anni e i decenni. Particolarmente presente è la stagione dell’infanzia e dell’adolescenza di Parise: il periodo della seconda guerra mondiale e quello che immediatamente la precede, che pare riaffiorare alla memoria con una vena di nostalgica malinconia, come evocazione di un mondo perduto. Quanto all’ambientazione, prevalgono i borghi della provincia e i piccoli centri del Nord, ma non mancano scorci dell’amata Venezia e della città d’adozione, Milano.
Nella prosa scarna e asciutta di Parise – che è stata definita minimalista, ma anche pittorica e musicale – impressionano il lettore soprattutto i ritratti d’ambiente, le atmosfere impalpabili dei paesaggi e il disegno netto delle figure e dei visi, che nella fisicità tradiscono spesso il segreto di una storia: come si intuisce sin dall’incipit del racconto di apertura.
Un giorno un uomo conobbe una signora in casa di amici ma non la guardò bene, vide che aveva lunghi capelli rossastri, un volto dalle ossa robuste con zigomi sporgenti da contadina slava e mani tozze con unghie molto corte. Gli parve timida e quasi impaurita di parlare e di esprimersi. Il marito, un uomo tarchiato con occhi sottili e diffidenti in un volto rinchiuso pareva respirare con il collo gonfio e gli ricordò i ranocchi cantanti.
Sono per lo più – come qui – personaggi senza nome (un uomo, una donna, un ragazzo), chiamati a mettere in scena generiche categorie umane, o personificazioni di uno stato d’animo. Ma l’osservazione analitica con cui vengono vivisezionati – e l’estrema attenzione al dettaglio, da parte del narratore – ha indotto la critica ad avvicinare questo testo al Palomar di Calvino (del 1983), che pure se ne distanzia per la programmatica volontà di sperimentare le potenzialità della letteratura in direzione del postmoderno.